~ dott. Federico D’Angeli psicologo e psicoterapeuta
~ due incaricati della Polizia Postale per i settori Pedofilia e Pornografia
Per la parte psicologica e clinica (intervento dott. D’Angeli) verranno trattati questi punti:
Pedofilia– attuale differenza fra “pedofilia” e “disturbo pedofilico”.
Pornografia – la pornografia cambia la persona e il cervello?
Clinica delle dipendenze da Internet ~ pornodipendenza ~ la persona e la pornografia – la fruizione di pornografia può costituire una vera e propia dipendenza?
Spunti, prospettive, risorse per la persona, la famiglia, l’istituzione – scuola, aggregazione giovanile… luogo di lavoro – che percepisce e si confronta con le suddette problematiche.
“Pedopornografia”: 30° appuntamento del Gruppo Insieme – Velletri.
L’intervento avrà una durata non superiore ai 30 minuti, il resto del tempo sarà riservato al moderatore e alle relazioni da parte della Polizia Postale.
Ingresso libero, gratuito e aperto alla cittadinanza.
Venerdì 18 maggio 2018
Sala parrocchiale (canonica) –chiesa di San Salvatore
Piazza San Salvatore 2 – Velletri
dalle 18:15 alle 19:35
Pedopornografia –30° incontro del Gruppo Insieme – 18 maggio 2018 Velletri (Roma).
“Il Gruppo Insieme organizza per venerdì 18 maggio 2018, alle ore 18,15, un incontro dal titolo “Pedopornografia“: un tema molto delicato per il quale interverranno: il dott. Federico D’Angeli, Psicologo e Psicoterapeuta e due elementi della Polizia Postale per i settori Pedofilia e Pornografia.
Come sempre l’incontro [gratuito] avverrà nella sala parrocchiale di San Salvatore ed è aperto a tutti. Grazie”.
Seminario “3 regole d’oro per superare la dipendenza da Internet”
Dipendenza da Internet: tre regole d’oro…!
Check your Checking
Set Time Limits
Disconnect to Reconnnect
Conviverebene con la tecnologia, prender-siil meglio di Internet e della vita social e connessa, allontanado-si dalle cose peggiori.
Conoscere le differenze che vi sono fra lo stare online nell’adolescenza, nell’infanzia e nell’età adulta.
Riflettere e pensare un attimo, quando necessario… prima di tappare!
Evento gratuito e aperto alla cittadinanza
Sabato 21 ottobre 2017
Comune di Velletri – Sala Tersicore
Piazza Cesare Ottaviano Augusto 1 – I piano
dalle 10:30 alle 12:30
Relatore dott. Federico D’Angeli psicologo e psicoterapeuta
Tre regole d’oro per superare la dipendenza da Internet – Mese del Benessere Psicologico 2017
Già fin dagli anni ’80 si iniziò a notare come la presenza dei personal computer sulle scrivanie e negli uffici – PC all’epoca offline, saltuariamente connessi fra di loro in una intranet e tanto meno online con il mondo – portasse le persone ad isolarsi e a dedicare notevoli quantità di tempo passato (anche) con i videogiochi dell’epoca, stile “Campo Minato” e “Solitario”.
Dipendenza da Internet (IAD) e nuove dipendenze – seminario gratuito: “3 regole d’oro per superare la dipendenza da Internet”.
La “dipendenza da Internet“… di fronte ad uno schermo trent’anni fa come oggi, il fatto che vi si trascorra sempre più tempo da soli e/o con frequentazioni: vere e proprie amicizie “virtuali“, rende opportuno porsi alcuni interrogativi in modo positivamente critico, attraverso delle buone domande e cercando delle risposteoneste.
Un tale lavoro e sforzo diviene necessario soprattutto nei confronti di ciò che si sta dando ai bambini e all’adolescenza, da parte degli adulti e delle varie “agenzie” oltre la famiglia e la scuola, esistendo oggi più agenzie rivolte ai minori – rispetto alle prime due – con altri mandati e interessi a volte contrastanti.
Gli interrogativi e le soluzioni concernono anche il come possano al meglio e si stiano strutturando, al livello del sé, gli adolescenti in relazioni sia online che offline e al futuro loro, che è di noi tutti.
In ultimo, oggi più di ieri è doveroso portare l’attenzione su cosa succede ad una persona adulta quando dedica molto tempo alla connessione e ciò viene sentito come un problema – una cosa che non fa poi tanto bene – tanto dalla persona stessa o anche solo da chi sta accanto.
Come si può gestire per meglio integrare la tecnologia nelle nostre vite cominciando, quando possibile, prima che si definiscano delle situazioni patologiche?
Che cosa si può fare quando lo smartphone, i social network e quant’altro assurge allo status di dipendenza?
A Velletri il Mese del Benessere Psicologico: ad ottobre due seminari gratuiti (Comune – Sala Tersicore) e prima consulenza tutto l’anno.
Il seminario, di carattere divulgativo, discute intorno a 3 Regole d’Oro tratte dal lavoro pionieristico della Dott.ssa Kimberly Young che permettono in modo immediato di iniziare a pensare e a fare, per restringere e selezionare Internet quando è causa di isolamento – ritiro sociale – a detrimento della persona, soprattutto adulta, abolendo e riducendo le attività (ad es. ludopatia – gioco d’azzardo, dipendenza da pornografia, da shopping compulsivo, da aste online… ricerca e organizzazione/accumulo di informazioni) – che si “appoggiano” sui limiti e sulle debolezze della persona stessa, quando tali attività non ne costituiscono una nuova forma di accettazione di tali confini o di sviluppo.
2 versanti della tristezza nell’elaborazione del lutto e della perdita:
la tristezza nel lutto normale e il confine con la depressione
nel lutto complicato e patologico
Evento gratuito e aperto alla cittadinanza
Sabato 14 ottobre 2017
Comune di Velletri – Sala Tersicore
Piazza Cesare Ottaviano Augusto 1 – I piano
dalle 10:30 alle 12:30
Relatore dott. Federico D’Angeli psicologo e psicoterapeuta
Superare la tristezza della perdita – Mese del Benessere Psicologico 2017
Per la persona che attraversa il lutto nel naturaleprocesso di elaborazione – nomale ma doloroso, colmo di sofferenza psichica e fisica, e non breve come periodo – una tristezza “reattiva” segue alla consapevolezza del lutto, mentre una tristezza “preparatoria” riguarda le inabilità e le perdite che si subiranno nel futuro.
Elaborazione del lutto – seminario gratuito: “Superare la tristezza della perdita”.
Tale tristezza riguarda il percorso ordinario che chi elabora il lutto affronta, ma può diventare un elemento di “blocco” quando il lutto è complicato.
Il seminario di carattere divulgativo e non esperienziale fornisce degli elementi di supporto alla persona, chiarificazione e indicazioni generali su cos’è la tristezza e quando può, nel lutto, parlarsi di vera e propria depressione, necessaria tanto di un sostegno familiare e sociale che di una approccio più specialistico.
La normalità dell’elaborazione della perdità può, solo in certe situazioni, divenire lutto patologico e ciò è possibile sia notarlo che affrontarlo, sostenendo la persona in difficoltà mediante una cura che possa accompagnarla.
La fase 4 dell’elaborazione del lutto – depressiva – che precede l’ultima fase – di accettazione della perdita – spesso può richiedere dei momenti di silenzioso affiancamento della persona in lutto.
Benessere Psicologico a Velletri: ad ottobre due seminari gratuiti (Comune – Sala Tersicore) e prima consulenza tutto l’anno.
Ciò accade quando la persona – malata o rimasta sola – comincia discretamente ad occuparsi di ciò che ha davanti più che del passato, vivendo “un tempo in cui troppa interferenza […] ostacola la sua preparazione emotiva invece di intensificarla.”
Il “lutto” è uno stato della persona, una situazione e al tempo stesso un processo di natura che permette per quanto possibile all’individuo – naturalmente, costituzionalmente interdipendente – di fare a meno di qualcuno che si è amato, del vissuto condiviso assieme, delle prospettive future oppure di rinunciare – quasi mai per scelta – a una situazione, ad un percorso di vita che finisce, ai progetti e a un’idea di sé e del futuro che, invece, si chiude e svanisce al mondo.
Come per far sì che una persona nasca al mondo sono necessari circa 9 mesi, dal concepimento al parto a termine, così e in modo paradossale sono necessarialmeno nove mesi perché una persona possa distaccarsi, attraverso il meccanismo – stato, processo, percorso – del lutto, da un’altra persona che ha fatto parte della sua vita.
Almeno nove mesi, ancora meglio se un anno o un po’ di più, questo dicono le evidenze cliniche relativamente al normale processo del lutto e al tempo che è necessario alla persona per “elaborare” quanto di inconcepibile vi sia per la mente umana nel fatto di dover morire, che si muore e che le cose, le situazioni e ancor più le persone “finiscano”.
5 fasi del lutto per la sua elaborazione.
In un secolo e mezzo di psicologia scientifica, sovente materialistica – una “psicologia senz’anima” – e in circa 120 anni di psicoanalisi “ufficiale” (cfr. Storia del materialismo di Lange e L’interpretazione dei sogni di Freud), si sono affermati alcuni modelli e strumenti concettuali contemporanei che cercano di dare ragione del “come” e del “cosa” sia – per la persona – il lutto. Tali strumenti offerti dalla psicologia e non solo da questa, si possono ritenere sufficientemente verificati: presenti e discussi dalla comunità scientifica da circa 50 anni.
Quasi tutti questi modelli si rifanno nelle loro radici alla psicoanalisi o, comunque, devono terne conto – per poi eventualmente distaccarsene – in quanto questa ha costituito l’ambiente nel quale si sono formati molti fra i maggiori psicologi clinici e psichiatri del XX secolo, periodo nel quale praticamente nessuno ha potuto non confrontarsi con il pensiero di Freud, con la filosofia – compresi limiti ed errori – da cui questo deriva e con gli sviluppi di essa, anche a seguito della presenza “sociale” e sempre più “democratica” della psicoanalisi stessa.
È da sottolineare come solo dagli anni 60 la morte e il morire è divenuto nella società occidentale – scientifica e in generale “iper”, “post” qualcosa – oggetto di particolare cura e di un “discorso” specifico. Forse in quanto fino alla Seconda Guerra Mondiale – fra conflitti, povertà diffusa, minore welfare, minori applicazioni pratiche della medicina ed una presenza quotidiana ancora iniziale delle conseguenze filosofiche di materialismo e modernismo – le persone erano molto più a contatto con la morte stessa, in modo quasi – tristemente, negativamente – quotidiano, ma quale fatto normalmente più presente nella persona.
Durante il “secolo breve” in appoggio alla psicoanalisi si è affermata in modo attuale e diffusa l’idea del lutto come lavoro psichico, faticoso e doloroso ma da compiere, e che permetterebbe alla persona di distaccarsi (decathexis) da quanto amato. Si tratta di considerare il lutto come un vero e proprio processo, un percorso chela persona che vive la perdita compie, per riparare il danno – concreto e psicologico – che accade quando ci si trova di fronte alla morte propria o altrui, alla malattia o alla fine di ciò che è.
Sempre radicati nella psicoanalisi diversi autori hanno approfondito temi quali attaccamento e perdita o la costruzione e rottura dei legami affettivi, fra questi due in particolare: John Bowlby – autore dei testi di cui si sono ora riportati i titoli – ed Elisabeth Kübler-Ross hanno sviluppato un modello per scandire il processo del lutto per come patito – attraversato e affrontato – dalla persona che subisce la perdita.
Il primo autore individua 4 fasi che la persona attraversa durante lo stato di lutto, ma tale modello sarà eventualmente oggetto di trattazione specifica altrove.
Elisabeth Kübler-Ross (EKR) invece, nel suo Kübler-Ross model – divenuto conosciuto e a ragione pervasivo della cultura, non solo specialistica ma anche mediatica – attraverso lo stare in ospedale vicino a pazienti definiti come malati potenzialmente terminali, alle loro famiglie e al personale ospedaliero, visse una vita di lavoro dedita anche alla formazione universitaria di medici e di infermieri, affrontando insieme a pazienti e operatori la questione della morte. EKR individuò cinque momenti – 5 fasi – che la persona in lutto attraversa di fronte alla perdita e alla morte. Collaborò anche con i cappellani, sacerdoti nella cui stanza (ufficio o cappella) prima o poi andavano a rivolgersi parenti e operatori, per trovare senso – e sostegno – di fronte all’ineluttabile fallimento delle capacità dell’uomo solo, quando si ha a che fare con la morte e il morire.
Si è qui affermato come il “Kübler-Ross model” sia divenuto pervasivo della cultura anche “popolare” e a ragione. A prescindere dall’intrinseca validità del modello, consolidata dall’utilità operativa che questo assume per le persone che possono farvi riferimento da oramai quasi cinquant’anni, la ragione della sua diffusione non sta solo nel modello e nel lavoro dell’autrice, ossia, in quei “Near-death studies” (studi sulla persona vicino alla morte) aventi a tema l’elaborazione del lutto e della perdita, che hanno portato alla definizione delle “famose” 5 fasi attraversando le quali si riesce ad elaborare un lutto. La sua diffusione sta nell’importanza che il tema della perdita, della morte e del morire assume da sempre per la persona umana, mentre la società contemporanea – anche in “appoggio” alla scienza – nega sempre più la morte quale realtà delle cose, naturale quanto dolorosa, penosa e angosciante, e nega il tempo necessario per l’elaborazione che chi rimane volente o nolente fa, raggiungendo diversi esiti.
Le 5 fasi dell’elaborazione del lutto e della perdita, lavoro e vita di EKR.
Dunque, non è solo un lavoro ben fatto e sufficientemente “onesto” che la Kübler-Ross ha realizzato – quale lavoro di una vita professionale, probabile specchio di una data persona – ma anche la presenza di una domanda infinita da parte delle persone, di uomini e donne ad ogni latitudine e in ogni tempo, la ricerca di un senso, di una soluzione – non voler morire – e di uno scopo al fatto che si muore.
Non è solo che EKR abbia fatto un buon lavoro scientifico e anche clinico, stando anche umanamente – in scienza e coscienza – affianco ai pazienti e alle famiglie, anche quando oltre alla tecnica (assolutamente necessaria) si rivela indispensabile la persona dell’operatore, ma anche che l’angoscia che è generatadalla morte, dalla malattia e dalla perdita di veri e propri pezzi della propria vita e della propria persona, necessita di un intervento clinico e scientifico vero e proprio, che comunque affondi nella relazione, nella vicinanza e nella presenza di almeno un’altra persona che stia affianco e condivida per quanto possibile il peso dell’angoscia, ma senza negare la morte e che si muore abbandonando (forse) tutte le certezze umane.
Elisabeth Kübler-Ross nacque in Svizzera nel 1926, visse negli Stati Uniti e morì all’età di anni 78 – nel 2004 – in Arizona. Nella sua attività di medico, ricercatore e docente incontrò chi si trovava di fronte al termine della propria o altrui vita, in quanto malato terminale o familiare – coniuge, figlio – di quest’ultimo.
Scrisse il libro “On Death and Dying” del 1969 – La morte e il morire – nel quale enucleò le 5 fasi dell’elaborazione del lutto e della perdita. Queste dividono il processo del lutto in diversi periodi che la persona in lutto attraversa:
Queste sono delle fasi e non degli “stadi”, in quanto possono sia palesarsi in modo lineare che sovrapporsi o ripresentarsi in una diversa modulazione. L’esperienza clinica ha spesso evidenziato però che la persona prossima alla morte o che subisce un lutto e la famiglia dove si vive la perdita, anche inattesa, attraversa le 5 fasi secondo l’ordine in cui furono organicamente descritte da Elisabeth Kübler-Ross.
Il lutto è uno stato di sofferenza intima, imponente, che mostra sintomi a livello della persona nonché sociali, sia psicologici: ansia, attacchi di panico, fobie, tristezza, depressione, disperazione… pensieri di abbandono; che fisici: insonnia… tachicardia, cefalea. Questi seguono alla perdita o la anticipano, quando questa è imminente o sufficientemente certa nel campo di vita della persona.
Leggendo, riflettendo sul lavoro e sui Near-death studies (studi sulla persona vicino alla morte) che Elisabeth Kübler-Ross (EKR) realizzò sul tema dell’elaborazione del lutto e dellaperdita – formalizzando le “famose” 5 fasi attraversando le quali si riesce ad elaborare un lutto – emerge chiaramente come esiste una sesta fase che è complementare almeno alle ultime 4 fasi del Kübler-Ross model: una vera e propria fase 6, la “speranza”.
“L’unica cosa che generalmente permane attraverso tutte queste fasi è la speranza”, ciò scrive esplicitamente EKR a proposito della speranza, e continua ancora “abbiamo trovato che tutti […] ne conservavano un po’ e se ne alimentavano in periodi particolarmente difficili.”
La “speranza” ~ hope: una vera e propria sesta fase che permane per tutta l’elaborazione del lutto e della perdita.
Medico, psichiatra statunitense di origine elvetica, la dottoressa Kübler-Ross propose sul finire degli anni 60 del XX secolo quel modello che porta il suo nome, frutto di osservazione e lavoro in ospedale e in università, ma soprattutto dello stare vicino e accompagnare verso la fine della propria vita – attraverso ascolto e molto tempo che EKR dedicò loro – molti malati non più curabili nonché le loro famiglie, in quanto anch’esse dovevano fare i conti con la morte, la perdita, lo stato di lutto e il processo che questo chiede alla persona, anche a quella che dovrà andare avanti verso il futuro da sola, non più come prima.
Come indicato altrove tale modello individua per chi elabora il lutto l’attraversamento di 5 fasi:
fase 1: rifiuto – isolamento (denial);
fase 2: rabbia – collera (anger);
fase 3: venire a patti – negoziazione (bargaining);
fase 4: depressione (depression);
fase 5: accettazione (acceptance – decathexis).
Una fase 6 – la speranza (hope) – viene a configurarsi non come una progressione che la persona può fare lungo le diverse fasi, in modo più o meno lineare o ricorsivo, ma si può pensare come un anello, una “ciambella”, che collega tanto tutte le fasi, quanto sostiene la persona che le attraversa.
Questo elemento comune a tutte le fasi e a tutti gli individui, forse perché costitutivo della persona umana, si mostra durante il processo di elaborazione del lutto in vari modi, peculiari per la storia di ognuno, ma anche in “appoggio” alle specificità culturali e sociali della propria vita, manifestandosi come fiducia nella scienza, nell’operare dei medici, nell’appello alla fede o al fine ultimo (finalismo teleologico), come indica EKR stessa “la sensazione che tutto questo debba avere qualche significato, e forse avrà una fine […] la speranza, che di quando in quando si insinua, che tutto questo sia un incubo e non sia vero […] così come il malato che subì il primo trapianto cardiaco deve aver sentito di esser stato scelto per svolgere un ruolo molto particolare nella vita.”
La fase 6 nell’elaborare il lutto e la perdità è – come un anello – la speranza (hope).
Il “senso di una missione speciale nella vita, che […] aiuta a conservare il coraggio, a sopportare” lo si potrebbe rapidamente e forse – meccanicisticamente – liquidare da un punto di vista psicologico come una forma di razionalizzazione del male e della sofferenza, un meccanismo di difesa psichico, una forma di rifiuto che è necessario – entro limiti ben ampi – alla persona per far fronte alla propria probabile morte o alla perdita di chi si è amato.
Però, un simile modo di pensare – di ascoltare ed avvicinarsi – alla persona e alla speranza non dà molto, anzi toglie molto, al lavoro che sia di uno psicologo psicoterapeuta che si occupi di elaborazione del lutto, o che sia il sostegno che è bene dare alla persona in lutto da parte di un amico, un familiare, un collega, l’insegnante o semplicemente un conoscente.
EKR scrive come a proposito dei suoi pazienti (e delle loro famiglie) sostenere la speranza “non significa che i medici [parenti, amici o figure professionali] debbano mentire […] significa semplicemente che noi condividiamo con loro la speranza che possa succedere qualcosa di imprevisto […] conservavamo con loro la speranza, ma non la incoraggiavamo quando alla fine essi vi rinunciavano, non con disperazione, ma in una fase di accettazione finale. […] sederci, ascoltare e condividere i loro problemi. […] abbiamo dei momenti in cui abbiamo voglia di parlare di quello che ci pesa, e momenti in cui desideriamo pensare a cose più piacevoli, siano esse reali o irreali.” In linea di massima le persone necessitano di condividere nel dialogo – anche silenzioso, non verbale ma di presenza – le loro paure con un’altra persona e trovano sovente in queste possibilità di rendere partecipe un altro, di elezione, una prospettiva di speranza e di sollievodall’angoscia; la speranza comunque in ultima analisi e fondamentalmente non è soltanto un rimedio all’angoscia – angoscia di morte – ma è soprattutto quella virtù che può permettere alla persona di agganciare se stessa a una dimensione che possa anche trascenderla.
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L’“accettazione” della situazione infausta rappresenta la fase 5: accettazione, decathexis (acceptance), del modello in 5 fasi relativo al processo di elaborazione del lutto e della perdita presentato circa 50 anni fa da Elisabeth Kübler-Ross (EKR), medico e psichiatra statunitense pioniera degli studi relativi alla persona quando si trova ad affrontare la morte o la malattia “inguaribile”, per sé o di chi vive affianco.
Per definire cosa succede alla persona quando si trova ad elaborare lo stato di perdita, questo modello scandisce il processo del lutto in diversi momenti:
fase 1: rifiuto – isolamento (denial);
fase 2: rabbia – collera (anger);
fase 3: venire a patti – negoziazione (bargaining);
fase 4: depressione (depression);
fase 5: accettazione (acceptance – decathexis).
La quinta fase “non deve essere scambiata con una fase felice. È quasi un vuoto di sentimenti. È come se il dolore se ne sia andato, la lotta sia finita”, ma è un tempo per prepararsi alla propria dipartita o per ricominciare e andare avanti senza più la persona amata presente, con tutte le conseguenze e gli strascichi che ciò comporta. Quando e se la persona “ha avuto il tempo sufficiente” ed è stata aiutata nell’attraversamento delle precedenti quattro fasi – sopra indicate – “raggiungerà uno stadio nel quale non sarà né depressa né arrabbiata” per come sono andate le cose e per cosa la aspetta.
Accettazione ~ decathexis: la quinta fase dell’elaborazione del lutto e della perdita.
Il processo del lutto avrà permesso di elaborare la perdita, lo shock e il rifiuto iniziale della fase 1; la rabbia e spesso l’invidia e la collera verso gli altri, il mondo e Dio nella fase 2; il “patteggiamento” impossibile e il fallimento della fase 3; la consapevolezza vera e piena della morte – e dell’angoscia che comporta – nei momenti di depressione della fase 4. Se tale lavoro di elaborazione è avvenuto in modo “sufficiente”, favorito o almeno non troppo ostacolato dall’ambiente circostante che – oggi più di ieri – nega la morte nonché il lutto, come stato naturale e percorso normale (non breve) della persona che subisce una perdita, questa potrà arrivare ad un relativo grado di “serenità”, “sufficientemente” adeguato per permettere di convivere con il passato e affrontare il futuro, con ciò che comporta.
L’ “accettazione” può avvenire quando il paziente o la famiglia – la persona che è in lutto – ha potuto elaborare tale situazione in un percorso:
non in totale solitudine;
non senza possibilità di parlare con un “altro” al bisogno;
non incontrando unicamente persone angosciate di fronte alla morte;
nella possibilità di essere ascoltata quando ne manifesta la necessità;
attraversando con alterne vicende le precedenti quattro fasi di elaborazione della perdita.
Elisabeth Kübler-Ross sottolinea come alla persona è richiesto un “immenso impegno […] per raggiungere questa fase di accettazione, che porta verso un graduale distacco (decathexis), dove non c’è più una comunicazione bilaterale” fra chi vive il lutto e chi gli sta accanto, e di come due possano essere le vie principali – più facili – perché la fase 5 giunga a palesarsi:
più raramente la persona può raggiungerla “con poco o nessun aiuto da parte dell’ambiente, eccetto una tacita comprensione, e nessuna interferenza”. Spesso tale strada è praticata da chi nella vita percepisce di aver “adempiuto i suoi compiti”, una persona che “ha già trovato il significato della sua vita e ha un senso di soddisfazione quando ripensa agli anni” alle esperienze e alle opportunità vissute;
la maggior parte delle persone, invece, può solo con fatica “raggiungere uno stato simile, fisico e spirituale [solo con un] tempo sufficiente per prepararsi alla morte”, tempo per elaborare il lutto per la persona scomparsa, per la perdita legata alle disabilità che si palesano o per la chiusura delle prospettive esistenziali. Le persone che giungono alla quinta fase – faticosamente – in questo secondo modo “lotteranno attraverso tutte le fasi precedentemente descritte” necessitando di “maggior aiuto e comprensione da parte dell’ambiente”, ma riuscendo anch’esse ad elaborare il lutto fino ad una vera e propria accettazione – ossia – ove “l’esistenza non conosce la paura né la disperazione”.
Tanto per i pazienti non più curabili, quanto per i familiari, soprattutto a seguito di malattie croniche che alternano remissioni e ricadute, la fase dell’accettazione può non coincidere con lo stadio terminale della malattia o con il momento della morte.
Arrivati all’ultima fase è a volte ben presente rabbia e depressione ma in intensità moderata rispetto ai momenti specifici precedenti, assumendo valenza di speranza e desiderio di vivere oltre ogni speranza.
Sono frequenti i momenti di comunicazione riservata con familiari e persone che sono accanto, in un parlare tanto più personale ed “intimo” quanto più chi ascolta non è soggiogato o rifugge dall’angoscia della morte.
Il paziente in fin di vita può assopirsi spesso e ad intervalli. Tanto il malato inguaribile, quanto il familiare che ha subito il lutto tende – nella quinta fase di questo processo – ad essere generalmente silenzioso, in un raccoglimento che però non è segno di rifiuto o depressione. Questo tempo risulta a volte incomprensibile a molti che non vivono il lutto o non ne conservano una propria esperienza, siano essi familiari, amici ma anche operatori sociali e sanitari.
Una persona prossima alla propria dipartita può fare “testamento dei propri affetti”, del senso della propria esistenza e contempla – quasi sempre – una speranza oltre il prossimo oblio.
Anche chi vive il lutto per chi non c’è più nella fase 5 di questo percorso di elaborazione può prendersi ancora un ultimo tempo, dedicato specificatamente alla cura della persona, della situazione perduta, e per se stesso. Generalmente la persona ricerca un tempo – che è corretto concedere – di raccoglimento, nel distacco dalla vanità delle molte faccende mondane.
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Il momento di “maggior coscienza” della morte apre alla fase 4: depressione (depression) del modello in 5 fasi formalizzato dal medico e psichiatra Elisabeth Kübler-Ross (EKR), relativamente al processo di elaborazione del lutto e della perdita.
Questa formalizzazione ha prodotto un modello del processo del lutto verificato nella pratica clinica dell’ultimo mezzo secolo che, permettendo una lettura della situazione attraverso delle fasi definibili e individuabili, costituisce tutt’ora uno strumento molto valido per incontrare chi – singoli individui, famiglie o gruppi – sta elaborando il lutto per una persona persa o per una situazione della vita. Il lavoro iniziato in modo pionieristico dalla dottoressa Kübler-Ross, incontrando persone in ospedale – dichiarate in fase terminale – i loro familiari, personale sanitario e parasanitario, cappellani, operatori sociali e studenti, si rivela utile oggi come ieri a chi professionista dell’ascolto o semplicemente familiare, amico o collega, debba e voglia stare vicino alla persona mentre questa elabora un lutto, tempo non breve di un percorso fisico e soprattutto psicologico che può nella normalità durare 9 mesi – un anno – o anche un po’ di più.
La persona in lutto attraversa delle fasi che non sono isolate fra loro ma possono anche in parte ripetersi con caratteristiche attenuate o sovrapporsi. Riferendosi all’opera e al lavoro (Near-death studies) della studiosa citata le fasi del Kübler-Ross model sono:
fase 1: rifiuto – isolamento (denial);
fase 2: rabbia – collera (anger);
fase 3: venire a patti – negoziazione (bargaining);
fase 4: depressione (depression);
fase 5: accettazione (acceptance – decathexis).
Caratteristica della Fase 4 è l’elevata probabilità che nel momento di maggiore coscienza e sensazione della propria morte, o della morte del proprio congiunto, familiare, amico, la persona viva dei momenti di depressione. Ciò segna e permette di riconoscere e differenziare dalle altre questa quarta fase. Essa viene dopo il desiderio e il tentativo – che fallisce – di governare nuovamente la propria vita com’era prima di aver ricevuto la comunicazione oggetto del lutto nel tentativo di venire a patti con il fatto infausto (fase 3, della negoziazione), momento successivo allo shock (fase 1, dell’isolamento) e alla rabbia (fase 2 della collera).
Depressione: la quarta fase dell’elaborazione del lutto e della perdita.
Collera e rabbia quali meccanismi di difesa del campo della negazione nella quarta fase di elaborazione della perdita non funzionano più per chi elabora il lutto, a tal proposito EKR fa notare come: “Il torpore o lo stoicismo, la collera e la rabbia saranno presto sostituiti dal senso della grave perdita che [la persona] subisce. Questa perdita può assumere diversi aspetti” e vedere la presenza di vari elementi e fattori di depressione:
cure prolungate, ricovero (proprio o del familiare prima del decesso);
alterazioni dell’immagine corporea anche a seguito di interventi medici (chirurgici, chemioterapici…) invasivi;
peso economico delle cure in loco o dei costi legati all’essere “migranti sanitari” (rapporto Censis 2017 Migrare per curarsi), cioè essere persone che per scelta o per obbligo si spostano per ricevere cure sanitarie fuori dalla propria regione affrontandone l’ingente costo economico e psicologico;
difficoltà lavorative, sia per il paziente che per chi (familiare) assiste fino al decesso, dovute alla difficoltà di lavorare perché malati o ai problemi o al rischio di licenziamento per le assenze legate alla malattia, ai tentativi di cura e all’assistenza;
perdita del ruolo familiare e della possibilità di educare i figli “come prima” e con la stessa attenzione, nel caso di vedovanza, dovendo spesso da soli dedicare più tempo a un lavoro sufficiente per la sussistenza.
Quando la sofferenza per il lutto accaduto o la progressione della malattia aumentano, la fase depressiva può indicare che il paziente (malato) o la persona che sopravvive alla morte comincia ad avere cognizione effettiva dellaperdita subita o di ciò che accadrà.
Il lavoro di EKR evidenziò come in questi momenti vi possono essere due versanti possibili della depressione: uno reattivo e uno preparatorio:
la depressione reattiva segue alla consapevolezza di quanto del proprio ruolo (le relazioni sociali), stato (il passaggio da coniuge a vedovo), del proprio corpo, della capacità di agire e di decidere è perduto;
la depressione preparatoria ha come oggetto le inabilità e le perdite che si subiranno nel futuro più o meno imminente. La persona non nega più la propria condizione di salute, quella del familiare o l’avvenuta perdita.
Queste due possibili situazioni sono diverse “per natura” e, quando si susseguono nella persona, necessitano di approcci diversi da parte di chi assiste nel lutto che, se non troppo angosciato dai propri – legittimi – fantasmi della morte, “non avrà difficoltà ad intuire la causa della depressione e […] il senso […] di colpa e di vergogna che spesso [la] accompagna”.
Per chi non è uno psicologo la Kübler-Ross indica come si possa “essere di grande aiuto durante questo periodo, prestandosi per riorganizzare la vita di casa, specialmente quando sono coinvolti bambini o persone vecchie e sole, per cui si deve pensare a un’eventuale sistemazione” e “come diminuisce abbastanza in fretta la depressione di un malato, se qualcuno si prende cura di questi problemi esistenziali”; la stessa cosa – lo stesso effetto positivo – è probabile ottenerlo non solo nei confronti della persona malata “terminale” ma anche verso colui o colei che elabora il lutto per la morte già avvenuta di un proprio caro.
Sul primo versante depressivo indicato – la depressione reattiva nel lutto – la spontanea reazione di tentare di incoraggiare la persona triste “dicendo […] di non guardare le cose in modo così fosco o disperato” potrebbe forse andare bene, ma solo se tale sostegno è fatto con tatto, moderazione e non per placare le angosce o il fastidio che chi aiuta può spesso provare. Sarebbe opportuno sostenere invece la persona su alcuni tratti particolari che la caratterizzano nella sua unicità, tenendo a mente che questa è capace di discernere, allontanare o non tenere in considerazione chi offre una “finta” vicinanza psicologica ed emotiva.
Nei confronti della depressione preparatoria nel lutto – che segue quella reattiva – quando “la depressione è un modo per preparare all’imminente perdita di tutti gli oggetti [in senso psicoanalitico] del proprio amore, che facilita lo stato di accettazione, forse non occorre più tanto incoraggiare e rassicurare […] questo tipo di depressione è necessario e benefico perché permette […] uno stato di accettazione e di pace. […] Se questa […] constatazione potesse essere comunicata ai familiari, anche a questi sarebbe risparmiata tanta angoscia inutile.”
In questo secondo tipo di depressione nel lutto e nella perdita, il forte dolore è proprio l’ardua via psicologica e fisica che può permettere di accogliere la morte di un congiunto, o preparare la persona alla fine della propria stessa vita, senza più negare, come era nelle tre fasi precedenti.
Non sempre la persona di fronte alla propria morte trova le condizioni – interne ed esterne – che le permettono di giungere a questa quarta fase del processo del lutto, ciò vale anche per chi elabora la perdita di una persona amata o per una situazione esistenziale che si chiude. Quando il processo del lutto non va avanti “sufficientemente” oltre una specifica fase, chi vive il lutto può trovarsi in uno stato di blocco – di lutto complicato – o di vero e proprio lutto patologico.
Una situazione di lutto patologico dipende molto dalla personalità complessiva della persona ed è abbastanza poco frequente, si verifica in appoggio a precedenti situazioni di difficoltà psichica o particolare disagio già vissuto nel passato dalla persona. Il lutto – che è un processo comunque naturale, seppur doloroso, non breve e difficile – si configurerebbe come un evento che può sollecitare delle problematiche psichiche – o psichiatriche – strutturali, alle quali si somma l’evento infausto della morte o della perdita.
Nel normale percorso del lutto, la depressione preparatoria è generalmente di tipo silenzioso ed in ciò contrastacon la depressione reattiva, che invece “richiede molte interazioni verbali e spesso attivi interventi da parte delle persone competenti nelle diverse discipline. Nel dolore che prepara la morte c’è bisogno di poche parole o addirittura di nessuna.”
La fase 4 dell’elaborazione del lutto – la fase depressiva – quando procede in modo da permettere il successivo passaggio alla quinta e ultima fase – dell’accettazione della perdita e della decathexis dalle “relazioni oggettuali” – spesso può richiedere dei momenti di silenzioso affiancamento della persona in lutto, senza neanche svolgere particolari attività. Ciò accade e lo si può notare quando la persona – malata o rimasta sola – comincia discretamente ad occuparsi di ciò che ha davanti più che del passato, vivendo “un tempo in cui troppa interferenza da parte di visitatori che cerchino di rallegrarla ostacola la sua preparazione emotiva invece di intensificarla.”
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La “negoziazione” rappresenta la fase 3: venire a patti (bargaining), del modello in 5 fasi messo a punto sul finire degli anni sessanta da Elisabeth Kübler-Ross (EKR) relativamente al processo di elaborazione del lutto e della perdita.
Questo modello inquadra il processo del lutto attraverso delle scansioni che sono state verificate – nella pratica clinica – incontrando persone malate (potenzialmente in fase terminale), i loro familiari, il personale medico e infermieristico, sacerdoti (cappellani), operatori sociali, studenti di materie sanitarie e più in generale persone che stavano elaborando il lutto per una persona persa o per una situazione propria. Queste fasi sono:
fase 1: rifiuto – isolamento (denial);
fase 2: rabbia – collera (anger);
fase 3: venire a patti – negoziazione (bargaining);
fase 4: depressione (depression);
fase 5: accettazione (acceptance – decathexis).
Nella Fase 3 la persona manifesta il desiderio di governare per quanto possibile la propria vitadopo il momento della conoscenza della notizia infausta (lutto), che è seguito dalle fasi più refrattarie alla ragione e alla realtà, quali sono la fase di shock (fase 1, del rifiuto) e quella di collera (fase 2 della rabbia, invidia, risentimento, incontentabilità, insofferenza).
Venire a patti: la terza fase dell’elaborazione del lutto e della perdita.
“Se guarisco, farò…”
“Se prendo le medicine, crede che potrò vivere fino a…?!”
“Se Dio lo facesse tornare…”
Di questa terza fase EKR scrive come il “desiderio [della persona in lutto] è quasi sempre il prolungamento della vita, seguito da quello di essere per alcuni giorni liberato dal dolore”. La persona (malata inguaribile) inizia a pensare a qualcosa che si possa comunque fare, esprimendo dei desideri in progetti più o meno realistici nei quali investire azioni e speranza.
Similmente accade quando la persona che patisce il lutto di un congiunto, prima o poi si confronta con la realtà e con un’idea di futuro. Ciò può avvenire in modo ambivalente in quanto in tale momento si possono provare a volte sensi di colpa (verso la memoria del defunto o verso la situazione oggetto del lutto).
Venire a patti diviene così il tentativo di dilazionare tanto quanto si sta per perdere, nella malattia, quanto la presa d’atto di quanto si è già perso, nel lutto, negoziando un improbabile scambio. Nei pensieri e nelle parole di questa terza fase sovente tale “contrattazione” mostra da una parte una rinuncia, un concedere qualcosa dalla persona che sta elaborando il lutto, dall’altra la richiesta di una possibilità, di un “premio”. Questa speranza che si cerca e che non rappresenta un nuovo equilibrio della persona ma un (legittimo) tentativo di ritornare alle realtà antecedenti al lutto, viene spesso condizionata non solo al do ut des: “se… farò…”, se à potrò, «io do affinché tu dia», ma include anche una specifica dimensione – una specifica clausola – temporale: “se… allora farò…, allora potrò ancora una volta, almeno”.
La persona in lutto, nella terza fase individuata dalla Kübler-Ross, mette in atto delle “manovre” specifiche: dopo aver negato lo stato e il fatto luttuoso (fase 1), e dopo aver preteso che la realtà fosse diversa (fase 2), ancora continua a negare e non può accettare la perdita (subita o prossima) ma, iniziando a prenderne effettivamente atto, la include in un campo di pensieri, parole e ragionamenti che sono un misto fra fantasia di cose razionalmente impossibili e realtà. Proprio l’inizio di questa commistione permette al “lavoro del lutto” di procedere, portando la persona verso le fasi successive e verso una possibile riorganizzazione, dei pensieri, delle azioni e delle cose, che via via sia in grado di tenere in considerazione il vero, ossia il lutto, con la carica di angoscia che ne deriva. Anche quando tale riorganizzazione avrà raggiunto il suo termine, essa non cancellerà – cosa impossibile – la perdita vissuta ma, molto probabilmente permetterà a chi vive il lutto di raggiungere uno stato migliore, che – al momento del lutto stesso e nelle prime fasi della sua elaborazione – risulta essere inconcepibile; un benessere in parte ritrovato e che sarà il risultato del processo (di natura) che è l’elaborazione del lutto.
Scrive EKR come: “i patti sono per lo più fatti con Dio e generalmente tenuti segreti o menzionati fra le righe o […] con il cappellano” o come: “molti [..] malati promettono anche di dare il corpo, intero o in parte, «alla scienza» (se i medici usano le loro conoscenze scientifiche per prolungar loro la vita)”.
Il patteggiamento avviene tanto in un dialogo con se stessi, quanto appoggiandosi e rispecchiandosi nelle persone vicine: familiari, amici, personale sanitario, sacerdoti. Le “promesse” e i “patti” permettono alla persona di far emergere – in modo più o meno consapevole – paure e sensi di colpa. Che tali rimorsi o colpe siano più o meno nascosti, più o meno reali, ha poca importanza in sé. Permettere alla persona che sta elaborando il lutto di parlare, quando ne avrà desiderio, le dà la possibilità di attraversare la terza fase. In un dialogo basato su un ascolto non giudicante e non angosciato – da parte di chi le sta vicino – la persona può iniziare a liberarsi da quelle colpe, quelle paure e quei timori (reali o meno), che altro non sono che “edifici di guardia” di fronte all’angoscia fin troppo vera della fine e della morte.
Parlando con altre persone chi elabora il lutto può uscire fuori dal circolo vizioso di questa terza fase che, come una legge del taglione potrebbe incatenare la persona sofferente alle angosce che questi stessi patti generano. Il compromesso diverrebbe come una compulsione a fare altre “promesse”, impossibili da mantenere e da sopportare a lungo, ogni volta che scade la “dilazione” prefissata.
Offrendo occasioni di paziente ascolto e di dialogo si rende accessibile alla persona in lutto una fondamentale risorsa che le permette di ricostruire quei primi fili di un discorso che fa leva su elementi simbolici che comunque emergono quali valori, convinzioni, abitudini ricorsive, modi di fare dei genitori, dei nonni e della comunità, per far fronte alla fine delle cose, potendo trovare o ritrovare – se la persona vorrà – una concezione anche metafisica (o specificatamente religiosa) del vivere e del morire.
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La “collera” rappresenta la fase 2: collera, rabbia (anger), del modello in 5 fasi pensato 50 anni fa da Elisabeth Kübler-Ross (EKR) relativamente al processo di elaborazione del lutto e della perdita.
Questo modello divide il processo del lutto in diversi momenti:
fase 1: rifiuto – isolamento (denial);
fase 2: rabbia – collera (anger);
fase 3: venire a patti – negoziazione (bargaining);
fase 4: depressione (depression);
fase 5: accettazione (acceptance – decathexis).
Collera e rabbia: la seconda fase dell’elaborazione del lutto e della perdita.
La Fase 2 è il momento in cui la persona maggiormente vive e manifesta sentimenti e atteggiamenti di vera collera e rabbia, risentimento e invidia:
“Perché proprio a me?”
“Ah, sì, non è un errore…”
“Perché io? Perché non è toccato a lui?!”
É un tempo importante per la persona in lutto, per la famiglia e per gli operatori che a questi sono vicini. Quando termina la fase del rifiuto (fase 1) di fronte alla notizia infausta – comunicata in modo più o meno appropriato – diventano esplicite ed espresse la collera e la paura, che esplodono in tutte le direzioni, investendo i familiari, il personale ospedaliero, la scienza… Dio.
Questo secondo momento dell’elaborazione della perdita è una fase critica e molto complicata da affrontare dal punto di vista della famiglia e di chi vuole sostenere la persona in lutto. Chiunque intervenga per aiutare o “normalizzare” si ritrova investito da un’aggressività che – spinta dalla paura – vive sotto la logica difensiva di una ribellione che – come scrive la stessa Kübler-Ross – “è proiettata in tutte le direzioni e sull’ambiente, a volte quasi a caso”. Tale atteggiamento di rifiuto però coincide anche con una elevata richiesta di aiuto la quale è difficile da sostenere, da parte dei familiari, degli amici, o da parte delle istituzioni e degli operatori sociali.
Quando chi è in lutto sta attraversando questa fase può manifestare non solo collera o rabbia – in modo esplicito – ma anche risentimento, freddezza o indifferenza, rendendo la relazione con chi vive accanto assai penosa. Stessa cosa possono stare a significare frasi e atteggiamenti di insofferenza e di incontentabilità che, quando non vengono tollerate da chi sta vicino alla persona in lutto, gettano quest’ultima in uno sconforto e in una rabbia ancora maggiore.
Per chi assiste chi vive tale fase diviene necessario interrogarsi sull’origine del – massiccio – risentimento. Un modo può essere pensarsi nei panni dell’altra persona sia per la durata di questa fase 2, sia dopo, quando questa si ripresenta meno intensa e sospendere giudizi e risposte che non siano di tolleranza, pazienza e accoglienza. Ciò soprattutto quando di fronte si ha una persona che, sempre come scrisse EKR: “dovunque […] guardi in questo periodo, troverà sempre motivi per lamentarsi”.
La persona compresa e rispettata in questo momento di collera e rabbia “abbasserà presto la voce”, a fronte di un tempo che gli sia concesso e che gli venga dedicato, senza giudizi, critiche e senza essere tenuta a distanza, a prescindere dalle azioni e dai suoi modi aggressivi. Chi sta vicino al lutto di qualcuno è bene che sia avveduto che la paura, poi la rabbia e la collera che – come reazione – ad essa possono conseguire, non hanno a che fare con le richieste, le lamentazioni, le faccende concrete e gli argomenti in sé per sé. Queste divengono oggetto di aggressività o di un ritiro altezzoso.
Ciò in quanto, quando si risponde direttamente contrastando la rabbia di qualcuno che è collerico perché sta elaborando il lutto – della malattia, delle disabilità, della perdita di una persona cara, della chiusura di una situazione importante della vita – questo risponde con rabbia ancor maggiore e – come indica EKR – ci possono essere “delle discussioni inutili per difendere la […] posizione, ma […] spesso il movente della discussione è assolutamente irrilevante”.
Non tutte le persone sono “adatte” ad essere vicino nel lutto, ciò è vero anche durante questa fase. Per “aiutare” si può anche ben fare il proprio “dovere” materiale ma, al contempo, voler essere affettivamente il più possibile lontani da chi è in lutto: un simile atteggiamento in questa fase non va bene. Non tutti sono in grado di essere affettivamente vicini nel lutto e, in caso non vi si riesca, sarebbe opportuno (quando possibile) mettersi in disparte e attendere per sostenere la persona poi, in fasi e in momenti successivi. Comunque la persona in lutto non va mai lasciata troppo da sola, se non nell’ultima fase del processo di elaborazione (decathexis), ove sarà questa stessa a saper dosare i tempi, gli avvicinamenti e le distanze.
È comprensibile che si possa essere terrorizzati dalla morte e dalla malattia, quando viene vista nel corpo o nella vita di chi vive accanto. Quando c’è il lutto la stessa paura della malattia, della sofferenza e della fine possono far sì che comunicare e accogliere quello che ha a che fare con la paura della morte, che in questa fase si manifesta attraverso rabbia e collera, sia impossibile. Lo stare sulla “difensiva” – dalla morte – in questa seconda fase del processo di elaborazione permette quasi esclusivamente alle persone di poter esprimere solo con aggressività e chiusura – in malo modo – quei sentimenti più legati all’angoscia.
Quando si vuole (o si deve) sostenere una persona in lutto è importante tollerare la sua collera, razionale o irrazionale che sia, ma ci si riesce solo se si è in grado di non mettersi sulle difensive, cosa che porterebbe a reagire nello stesso modo. È possibile imparare ad ascoltare e a stare vicino anche nella collera irrazionale, ma quando si ha consapevolezza che ciò non si riesce a fare, sarebbe necessario ammetterlo a se stessi con onestà, adoperandosi per trovare altre risorse di aiuto e di ascolto, per un sostegno proprio, per essere poi pronti ad intervenire e sostenere nei momenti e nelle fasi dei mesi successivi. Sarebbe necessario per chi voglia aiutare nel luttotollerare almeno un po’ la propria paura della morte, paura che non permette di sottrarsi a quei meccanismi di difesa psicologici che si basano sulla distruzione, l’allontanamento e il rifiutoa priori di ciò che è sentito angosciante anche per se stessi.
L’intervento psicologico nella fase iniziale del processo di elaborazione del lutto si esplicita usualmente prima della fase 2, mediante la comunicazione del fatto infausto, per poiriprendere a partire dalla conclusione di tale seconda fase – di collera erabbia – per quel che è necessario per agevolare un buon passaggio alle fasi successive, o per valutare e prevenire l’aggravamento di sintomi e situazioni di “lutto complicato” o “patologico”. Queste ultime due situazioni non rappresentano il normale andamento del processo del lutto e possono sì succedere, ma solo a volte. Dunque se si esclude il momento dell’avvenuta conoscenza della situazione del lutto da parte della persona coinvolta, l’intervento dello psicologo psicoterapeuta ha generalmente luogo dopo due o tre settimane dal lutto stesso, limitandosi prima di tale periodo a osservazione e attesa che il naturale processo del lutto faccia il suo percorso.
Restituire piano piano il controllo anche di cose piccole e minime azioni quotidiane alla persona in lutto, smettere – sospendere – di dare consigli, può cambiare la situazione a chi sta elaborando la propria sofferenza e agevolare il passaggio ad una fase successiva del “lavoro del lutto”. Essere presenti ma non giudicanti e oppositivi, può “incastrarsi” in modo complementare con il fantasma e il quadro immaginario della persona in difficoltà che, trascorso il tempo di questa seconda fase, potrà riagganciare quegli elementi simbolici di speranza che sono legati a quelle stesse persone che ora – nella fase 2, della rabbia e della collera – rifiuta, insulta, allontana, non tollera e aggredisce trattandole male.
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Il “rifiuto” rappresenta la fase 1: rifiuto, isolamento (denial), del modello in 5 fasi pensato già mezzo secolo fa da Elisabeth Kübler-Ross relativamente al processo di elaborazione del lutto e della perdita.
Rifiuto e isolamento: la prima fase dell’elaborazione del lutto e della perdita.
Elisabeth Kübler-Ross è stata una psichiatra statunitense nata in Svizzera nel 1926 e morta per cause naturali in Arizona nel 2004, all’età di 78 anni. È stata pioniera degli studi relativi alla persona vicino alla morte, nella malattia incurabile e nell’elaborazione del lutto. Il suo lavoro ha riguardato chi si trova di fronte alla fine imminente della vita, ma anche chi si trova ad essere vicino a qualcuno gravemente malato (terminale), o colui o colei che sta elaborando la perdita di una persona cara: coniuge, figlio, familiare, amico. È l’autrice del testo base “On Death and Dying” del 1969 – in italiano: La morte e il morire – nel quale ella presentò per la prima volta il modello, poi conosciuto con il suo nome, relativo alle 5 fasi dell’elaborazione del lutto e della perdita. Questo modello scandisce il processo del lutto in diversi momenti:
fase 1: rifiuto – isolamento (denial);
fase 2: rabbia – collera (anger);
fase 3: venire a patti – negoziazione (bargaining);
fase 4: depressione (depression);
fase 5: accettazione (acceptance – decathexis).
Trattasi di un modello a fasi, non a stadi. Infatti queste possono sia avvicendarsi, che ripresentarsi o sovrapporsi, con ordine e intensità diverse. Le evidenze cliniche accumulate in quasi cinquant’anni – da quando è stato pubblicato il testo di cui sopra – hanno mostrato come la maggior parte delle persone malate terminali e delle famiglie che subiscono un lutto, anche inatteso, attraversa le 5 fasi secondo l’ordine in cui EKR (Elisabeth Kübler-Ross) le descrisse.
Il lutto è uno stato di sofferenza intima, imponente, che si manifesta a se stessi e agli altri anche attraverso sintomi tanto fisici – insonnia… tachicardia, cefalea – quanto psicologici – tristezza, depressione, disperazione… pensieri di abbandono – e che fa seguito alla perdita subita o imminente.
Lo “stato” di lutto non è solo una situazione statica ma a differenza di alcuni modi e congiunture di intenderlo nel discorso il lutto è anche e soprattutto un processo. Tale processo segue delle “fasi” che, trascorse, portano la persona in lutto ad una condizione sufficientemente stabile di maggiore o minore benessere ritrovato – citando John Bowlby: ad una fase di maggiore o minor grado di riorganizzazione – pur non potendo cancellare dalla mente l’evento della perdita, l’assenza, la mancanza.
La Fase 1 è la fase del rifiutoiniziale, dell’isolamento e della negazione:
“Ma è sicuro che le analisi siano fatte bene?”
“È un errore… Non è possibile…!”
“Non è vero…”
Che vengano esplicitate o meno, pronunciate o tenute vive nella mente: “non ci posso credere” sono le parole più frequenti e il primo pensiero del malato e dei familiari di fronte alla diagnosi di una patologia organica grave, o alla comunicazione di un incidente grave/mortale. Questa fase è caratterizzata dal fatto che la famiglia e il paziente, usando un meccanismo di difesa: il “rigetto della realtà”, dichiara impossibile di avere proprio quella malattia o che sia successo il fatto luttuoso.
Il processo di inizialerifiuto della realtà circa la propria salute o verso quella di un congiunto – o per l’avvenuto decesso di una persona cara – può essere funzionale al malato e a chi gli sta affianco per proteggere da un’eccessiva angoscia della morte, ricavando così un tempo necessario per organizzarsi.
Il rifiuto, per lo meno parziale, c’è in quasi tutte le situazioni sia durante la prima fase – quando la si deve affrontare in pieno – sia successivamente nell’avanzare del processo di elaborazione del lutto, ripresentandosi meno intenso nelle fasi successive. Come indica EKR le persone: “possono considerare la possibilità della morte per un po’ di tempo, ma poi devono accantonare questa considerazione per poter continuare a vivere”.
Tale realistica posizione è un buon modo di affrontare questa fase anche per le persone che sono affianco a chi vive il lutto: il rifiuto dopo la notizia shock dà a chi è in lutto quel tempo per mobilizzare altre forme di difesa – processi mentali più ancorati alla realtà, agli altri e alle relazioni – meno radicali e arcaiche.
Successivamente, quando la persona in lutto avrà avuto il tempo che gli necessita – non definibile a priori, potranno essere anche diverse settimane ricorsive ma ciò è molto variabile a seconda delle situazioni – prenderà essa stessa l’iniziativa di mettersi a parlare quando si sentirà disposta, dopo aver attraversato anche una fase di rabbia, che può mettere a dura prova l’interlocutore non avveduto del manifestarsi di questi passaggi. Nel dialogo che segue la prima e la seconda fase indicateci da EKR, chi vive ed elabora il lutto potrà riassumere il rifiuto e la propria collera per iniziare, non più da solo, ad agganciare una forma di speranza.
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Dott. Federico D’Angeli Laureato con lode in Psicologia Clinica e di Comunità, con una tesi sperimentale sul “mito familiare”, presso la cattedra di Psicodinamica dello Sviluppo …
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